Ho ascoltato il podcast DOI: Denominazione di Origine Inventata durante il mio viaggio in macchina verso la Sicilia insieme a Marco e ho potuto verificarne gli effetti devastanti sul cuore puro e integro dell’italiano medio con i miei occhi.
DOI prende a calci nel fondo schiena quasi tutto ciò che ci siamo raccontati in questi lunghi anni sulla cucina italiana e una volta che queste informazioni apparentemente iconoclaste, ma assolutamente vere, attraversano le tue orecchie, non torni più indietro e guardi (o mangi) tutto con occhi diversi.
Le due facce di DOI: da leggere e da ascoltare
C’era prima il libro
Ironizzando sul concetto di DOC (Denominazione di Origine Controllata), il titolo sembra una dichiarazione di guerra senza colpo ferire, eppure l’intento di Alberto Grandi è semplicemente quello di raccontare la verità, non la sua o quella di qualcuno a caso: una verità verificabile, già scritta e tramandata ma poi ignorata e sostituita da una sorta di favola bella che ha molto a che fare col marketing.
Ebbene sì, noi italiani ci sappiamo vendere più di quanto immaginiamo, il settore culinario ne è un perfetto esempio. Lo storytelling in Italia è nato prima che si sentisse pronunciare questa parola, nell’epoca in cui il Paese ha cominciato ad arricchirsi e, di conseguenza, a potersi permettere di mangiare bene.

Il podcast DOI su Spotify
Immagino Alberto Grandi che cammina raccontando tutte le sue storie per le strade d’Italia, mentre i palazzi crollano e si disintegrano come sotto i grossi piedi di Godzilla.
Due stagioni sono bastate per inimicarsi lo stivale insieme al suo coraggioso compagno d’avventura Daniele Soffiati, autore di libri dedicati al cinema e alla televisione. Ciascuna puntata è strutturata come una piacevole chiacchierata e dedicata a un tema del giorno.
Nel podcast DOI, che potete ascoltare su Spotify, si parla delle bugie diffuse sul gelato, della pasta e del riso, del pane e della carne, come della pizza e delle contraddizioni relative ai prodotti tipici regionali. Una delle più belle puntate, a mio modesto parere, è quella su Pellegrino Artusi, che ha scritto il più famoso libro di cucina italiana pur non sapendo dichiaratamente cucinare.

Se ci pensi ha senso
C’è stata un’epoca in cui l’Italia si divideva in chi mangiava la polenta e chi no. Il popolo italiano è stato affamato per moltissimo tempo, questo giustifica, d’altronde, il fenomeno enorme delle migrazioni verso l’America.
Certo, se ci penso, i racconti delle mie nonne non rievocano grandi piatti di lasagne, parmigiane o arrosti succosi serviti con montagne di patate al forno.


Qui in Veneto gli anziani si ricordano ancora della pellagra e se la polenta per noi giovani è un irrinunciabile piatto simbolo della nostra tradizione, c’è chi di polenta non ne vuole nemmeno sentire parlare.
E poi la guerra. Mia nonna mi diceva che tornava a casa da scuola e raccontava a sua madre di aver mangiato da un’amichetta, così la sua razione di cibo poteva andare alla sorella.
Quindi effettivamente tutta questa abbondanza radicata nell’immaginario comune di un popolo che sta attendendo che la sua cucina riceva il titolo di Patrimonio Immateriale dell’Umanità Unesco (candidata dalla rivista La Cucina Italiana nel luglio 2020) non è confermabile.
La cucina italiana è diventata quella attuale gradualmente, grazie al benessere. Secondo il libro di Alberto Grandi la costruzione in serie dei falsi miti a cui crediamo oggi, io compresa, è iniziata negli anni ’70.
Chi è Alberto Grandi e perché gli crediamo
Se state cercando un pretesto per non credergli non lo troverete nel suo Curriculum Vitae. Alberto Grandi è professore associato di “Storia dell’alimentazione” e presidente del corso di laurea in “Economia e management” all’Università di Parma.
Recentemente ha raccontato di essersi fatto parecchi nemici, anche tra i consorzi, come se fosse un guastafeste da arginare. La verità è che dietro tutto ciò che scrive e dichiara il professore c’è tanto studio e profonda ricerca, perché – e lo dice lui stesso – tutte le sue informazioni sono verificate e verificabili, tanto che nella seconda stagione del podcast, forse proprio per zittire chi l’ha criticato, a fine puntata fornisce i titoli dei libri sui quali potersi documentare.

Miti culinari da sfatare: qualche delizioso esempio (che vi farà detestare l’America)
DOI è un libro (e un podcast) di storia: storia dell’alimentazione italiana e dei prodotti tipici. Il punto di vista è quello di qualcuno che vuole raccontarla con viva onestà, spogliandola di tutte le leggende che ci hanno convinti di cose assolutamente false e infondate. Ma quali?
Nel 1950, secondo un sondaggio dell’ISTAT, nel sud Italia il riso era praticamente sconosciuto (meno che in Lazio). Nella patria degli arancini (o arancine) e dei timballi, insomma, fino agli anni ’50 il riso si mangiava sì e no all’ospedale.
Il parmigiano più fedele a quello dei monaci emiliani del Medioevo si mangia nel Wisconsin.
Lì il Parmesan, che fa tanto rabbrividire le prime linee dell’esercito del Made in Italy, alla fine si prepara ancora come si faceva da noi prima della Grande Guerra, momento in cui gli antenati dei casari emiliani hanno migrato in cerca di fortuna. Non c’è stata un’evoluzione nella preparazione del Parmesan del Wisconsin e questo lo rende oggi quanto di più simile all’originale.


E poi ancora: la prima ricetta messa nero su bianco della carbonara è apparsa su un libro di cucina americano nel 1953, quindi combattere quotidianamente su quali ingredienti debbano popolare questo piatto – pancetta o guanciale? parmigiano o pecorino? – è praticamente una fatica inutile.
La pizza per come la conosciamo noi oggi è nata in America, grazie agli immigrati italiani. Ѐ lì che è diventata un piatto dalla forte identità, con quelle precise caratteristiche, per tornare poi in Italia e divenirne il più forte simbolo.
Non è nemmeno vero che la pizza margherita è stata preparata dal cuoco Raffaele Esposito in onore della Regina Margherita di Savoia (ve la ricordate?) e questo fa parecchio male.

Il podcast DOI ci apre gli occhi. Perché è giusto sapere
Alberto Grandi non si è inventato nulla, ma ha saputo creare un intelligente collage con molte informazioni già scritte e già dette. Forse è il fatto che le abbia messe tutte insieme a destabilizzare un po’.
La narrazione che è diventata letteralmente storia, ci sconnette automaticamente dai fatti che abbiamo sempre preso per assodati, confondendoci sulla conoscenza delle nostre vere origini. Certo alcune storie, come molte di quelle che vengono utilizzate dai consorzi, hanno davvero un grande valore poetico e sono state fondamentali per rendere i nostri prodotti tipici famosi in tutto il mondo.
Perciò è chiaro che servono ed è il motivo per il quale il professor Grandi ha avuto diverse critiche. Noi ridiamo, ma non è solo una questione di disincanto personale, dietro a queste storie si muove un’intera economia, perciò si giustifica la mancanza diffusa d’interesse nello smontarle a favore di una verità meno creativa.
Ascoltando o leggendo DOI s’impara parecchio, a proprio rischio e pericolo, ma io sono sempre per la consapevolezza, soprattutto a tavola.

